«Vino, cultura e territorio sono una cosa sola»

800 sedi in tutto il mondo e oltre 100 mila studenti ogni anno. Il WSET (Wine & Spirit Education Trust) è una delle principali realtà internazionali impegnate nella formazione di professionisti, operatori e appassionati del comparto del vino e dei distillati. Nella scuola di Londra insegna David Way, scrittore e studioso che firma i libri e i materiali destinati agli allievi dei corsi più avanzati.

Lo abbiamo incontrato sulle nostre colline, perché il suo nuovo progetto, che avrà anche uno sviluppo didattico e accademico, lo ha condotto nuovamente in Italia. Il motivo? Una pubblicazione sulle denominazioni vinicole piemontesi. «Sarà un lavoro articolato in tre sezioni – anticipa l’autore – La prima servirà come introduzione alle caratteristiche della regione, dal clima alla morfologia; la seconda si concentrerà sui vitigni, mentre l’ultima riguarderà più da vicino le singole aree vinicole, come per esempio il Monferrato».

Perché proprio il Piemonte?

«Dopo un’analisi la mia valutazione si è ristretta su tre aree: Toscana, Campania e Basilicata, Piemonte. La scelta di quest’ultima regione, che pure avevo già avuto occasione di visitare, è sostanzialmente legata al prestigio dei suoi grandi vini di fama mondiale, come Barolo, Barbaresco e Barbera. Ma anche per il fatto che il Piemonte offre una gamma di autoctoni nutrita e interessantissima».

Un’impressione sul Monferrato.

«Intanto il paesaggio è bellissimo. Sopravvive ancora un’incantevole ruralità, con tante tracce di storia da studiare e riscoprire. E poi la cucina e la gastronomia toccano punte di altissimo livello in termini di ricercatezza e raffinatezza, fra le più alte d’Italia».

Parlando di vino e territorio: c’è qualcosa che, a Londra e nel mondo, può identificare il Monferrato in modo immediato e riconoscibile?

«È una questione sottile. All’estero la maggioranza degli appassionati identifica il Piemonte del vino con Barolo e Barbaresco. Il Monferrato deve imparare a raccontare la bellezza del suo paesaggio e la qualità dei suoi vini in modo unitario. I marchi aziendali, anche quelli più noti, hanno bisogno di essere parte integrante di una logica più ampia di racconto. Conoscere un marchio non significa conoscere il territorio; questo le Langhe lo hanno capito prima. E poi anche le denominazioni dovrebbero trovare dei nomi più uniformi, senza frammentarsi in troppe tipologie. Vedrei nel Nizza Docg, espressione di massima qualità delle uve Barbera, un plausibile brand in grado di raccontare, a un tempo, eccellenza enologica e territoriale».

Il destino del vino dipenderà da una rimodulazione della sua comunicazione?

«Facciamo questo esempio: a Londra un appassionato può assaggiare tutti i vini del mondo, quando vuole. Per fare in modo che il Piemonte e il Monferrato emergano occorre qualcosa in più. Questo qualcosa è la storia, il racconto, lo stile italiano. Con la sterminata offerta del mercato contemporaneo, un vino non dev’essere solamente buono, ma deve diventare un’espressione identitaria in grado di narrare un paesaggio, di evocare cultura, di suscitare emozioni».